fiume

fiume
fiume della vita

domenica 21 dicembre 2014

L'ALBERO DI NATALE

Quella che ricordo è una casa piccina. Piccina come quella delle cartoline di Natale di una volta. Quattro stanzette quadrate, una stufa di ghisa al centro della cucina, le erbe odorose sul piccolo terrazzo anch'esso quadrato, un pezzetto quadrato di terra dove si raccoglievano le verdure di stagione, un albero di nespole e uno di mela, pioppi in fila come una processione, il chiacchiericcio di un ruscello compagno di tanti sogni audaci, la ferrovia poco distante e tanto tanto verde. Uccelli d'ogni tipo da parere aria loro stessi. La campana della Chiesa portava sempre alla casetta i suoi rintocchi a cominciare dall'alba per arrivare a quelli del vespro la sera. La casetta era un brulicare alacre di vita lavorativa, frammentata dall'improvviso di un canto, qualche parola necessaria per comunicare o dare corpo a una presenza. Chi lavava i panni nel grande mastello di legno, chi li stendeva e poi li stirava, chi cuciva vestiti bellissimi, qualcuno anche per me e che io indossavo davanti al grande specchio distraendolo perché spostavo continuamente gli occhi al mistero dell'adolescente in sboccio che ci vedevo riflessa e alla quale rivolgevo domande scottanti senza mai averne risposta se non attraverso odori acri primitivi genuini che mi facevano scostare bruscamente da quel corpo acerbo ma capace di formulare pensieri così impuri, che io consideravo peccaminosi pur sentendo nel profondo del cuore che non lo erano. C'era chi lavorava ai fornelli nell'attesa che arrivasse l'ora per apparecchiare la tavola tendendo l'orecchio all'uscio da dove si sarebbe stagliata l'imponente figura del "gran capo" , il nonno. Così lo si chiamava Il nonno "gran capo" si chiamava Luigi, ma tutti lo chiamavano Gigion. Era ferroviere, ma con un talento naturale per il disegno, le caricature, le piccole sculture, una manualità straordinaria da suscitare in tutti meraviglia e piacere. Piuttosto autoritario da mettere soggezione ma buono. Una bontà rude e semplice che con generosità elargiva agli abitanti della casetta assicurando il nutrimento e tutto ciò che era nelle sue forze offrire. Tutti lo temevano meno la sottoscritta che, appena ne intravvedeva l'ombra sulla porta, gli si aggrappava sino a quando aveva la certezza che si fosse seduto su una delle grandi sedie di legno impagliate e quadrate anche loro. Lei allora gli si stendeva ai piedi protendendo tutto il volto ad ascoltare le sue storie incredibili, forse inventate o forse anche no, le trame delle opere raccontate con modulazione di voce e toni da provare la sensazione d'essere a teatro, ascoltare le canzoni della tradizione emiliana, e qualche classica napoletana o pezzi d'opera. Perché il nonno aveva una gran bella voce di basso e perfettamente intonata. Il nonno non era credente, come del resto nessun componente di quella casetta, però si respirava una sorta di religioso rispetto nell'osservare i santi del calendario, riportando qualche spezzone di vita diventata miracolo o leggenda. Un miscuglio di visibile e non, di speranza e d'oltre che puntualmente si allontanavano con le docce fredde della realtà, delle lotte sulle ingiustizie mai vinte, sul vivere senza che gli esiti positivi incoraggiassero le speranze a farsi concreto filo conduttore. Credo che il nonno fosse anarchico sino all'ultimo pezzettino delle sue viscere anche se all 'esterno non lo diede mai a vedere, ligio com'era alle leggi sino all'inverosimile. Ecco. In quella casa piccina ho passato la mia infanzia. Serena. Poi gli anni del collegio e di nuovo ancora per un poco lì, in quella casetta da fiaba. Il collegio. Sette oscuri durissimi anni per quanto lo studio del pianoforte e della recitazione riuscissero a far guizzare, a volte, la mia individualità tendente alla chiusura e a un riserbo che indirizzava alla timidezza. Eppure fu proprio là, dove imparai che la realtà non è mai scissa dal l'apparenza, anzi più apparenza che sostanza, e appresi l'arte del sapersi "ruffianare" qualcuno che "contasse" per addolcire il peso di un quotidiano che altrimenti sarebbe stato insostenibile. Per me fu la protezione della Superiora (Madre Badessa) e di qualche altra monaca "che valeva", avendola preso a ben volere e risparmiandosi (almeno) le levatacce mattutine delle 5. Come sopra detto in quella casetta non si recitavano le giaculatorie, ma si era osservanti delle tradizioni, delle Feste Raccomandate. In prossimità del Natale un tavolo della cucina veniva sgombrato. Lo si metteva davanti a una parete e da lì partivano i preparativi per "creare" il Presepe. Dico "creare" perché quello che saltava fuori alla fine era un autentica opera d'arte. Un capolavoro da esporre agli occhi di tutti e del quale restare a bocca aperta. Le statuine erano in terracotta e colorate fatte tutte dal nonno. Chissà che fine hanno fatto. Il muschio sempre rinnovato e fresco, l'acqua che zampillava di qua e di là, il grande cielo azzurro con le stelle sulla parete sopra al presepe. Ma non c'era l'uso dell'albero. E a me questo mancava anche se questo desiderio mortificato se lo custodiva dentro. Poi un bel giorno "Qualcuno" entrò nel segreto del mio cuore e pensò di regalarle un pino vero. Enorme. Alto fino ad arrivare al soffitto della casa, e grande come tutta una delle quattrocentesca parete. Potevo avere 14 anni e da pochi mesi ero uscita dal collegio. Ruppi il salvadanaio e con il mucchietto tintinnante di monete, col cuore che batteva forte andai a prendere tutto del più e tutto del meglio per addobbare quel magnifico albero. La casetta ora era un via vai silenzioso di gente che sostava, guardava incantata l'albero e guardava me, sorrideva, esclamava oh di meraviglia e velocemente si asciugava una lacrima lasciando in silenzio la casa. Io risplendente come un faro. Un faro di luce rubato a ogni palla colorata appesa all'albero. Ma soprattutto rubata alla Gioia trattenuta a fatica ed esplosa ad incendio su tutto il mio m. 60 che per l'evento parevano cresciuti il doppio. E non ci fu verso, urlo o preghiera a smuovermi da lì. Neppure la notte. A mezzanotte la campana della piccola chiesa cominciò ad annunciare con la festosità dei suoi rintocchi il rinnovamento del Prodigio, riportando a me una musica mai sentita prima. "Silent night". Un presagio di continuità nel miracolo natalizio. Qualche anno dopo mi chiesero d'incidere quella canzone in un disco. Cosa che feci con la voce di un Cielo pieno di stelle bagnate ricordando quel l'avvenimento misterioso,strano, gioioso. Ancora oggi, a distanza di anni, è tutto davanti a me, l'aria fredda quando volli spalancare la finestra, il canto di un uccello, l'acqua gelata del ruscelli che mandava bagliori argentati, il mio corpo un fuoco di vibrazione. Un tutto Uno con la Gioia, con la natura, con Dio, e senza più alcun sentimento d'invidia per la vicina con l'albero ritenuto il più bello della cittadina dove abitavo. ;Mirka< Nota: Si dice che il Primo amore non si scorda mai. vero. Che questo donato di albero sarà sempre un motivo per Ricordare la Gioia della sorpresa e a seguito l'adorazione della Contemplazione.  "Silent Nigth"




 Sospesi momentaneamente i commenti

Nessun commento:

Posta un commento